INTERVISTA
Paul Connett, chimico e ideatore della strategia “Rifiuti Zero”
La ricetta è produrre solo ciò che è riutilizzabile
Con questa intervista a Paul Connett, Element+ continua l’esplorazione del nuovo mondo cominciata con l’intervista a Jeremy Rifkin. I due pensatori americani infatti sono legati ...
venerdì 3 dicembre 2021
Con questa intervista a Paul Connett, Element+ continua l’esplorazione del nuovo mondo cominciata con l’intervista a Jeremy Rifkin. I due pensatori americani infatti sono legati da un filo rosso che li porta a elaborare una ragion critica dello sviluppo economico del 21mo secolo irrispettoso delle leggi della termodinamica e delle esigenze di sopravvivenza della specie umana sul pianeta. Se con Rifkin abbiamo spalancato la finestra sul mondo dell’energia fossile e sulle conseguenze che il suo sfruttamento selvaggio ha avuto sull’economia globale e sui rapporti umani e sociali, con Paul Connett andiamo a esaminare le conseguenze dello sfruttamento della materia, permesso peraltro proprio dallo strapotere energetico dei fossili. Paul Connett ci spiega come gli attuali modelli di consumo dell’economia lineare (estrazione, trasformazione, smaltimento, nuova estrazione) non possano essere mantenuti, a tempo indefinito, in un pianeta dalle risorse non infinite ma limitate. Allo stesso modo in cui Rifkin ci spiegava nella sua intervista che l’infrastruttura economica basata sull’energia fossile non può essere mantenuta all’infinito in quanto le fonti energetiche su cui è basata stanno alterando la biochimica del pianeta e mettendo a repentaglio la vita come la conosciamo. E soprattutto sono in via di esaurimento mentre quelle rinnovabili, basate sulla radiazione solare, sono infinite. Entrambi i nostri interlocutori sono dunque profeti di un cambiamento che è ormai diventato improcrastinabile, Connett verso una società dei consumi circolare e non più lineare, Rifkin verso un modello energetico sostenibile, democratico, e rispettoso dei principi della termodinamica, dunque verso un’energia “circolare” perchè il sole sorge ogni mattina e non è soggetto a esaurimento, a differenza delle fonti fossili. Ed in questa circolarità dell’energia e della materia, sia Rifkin che Connett ci prendono per mano verso un futuro sostenibile che si spera gli organismi internazionali vogliano prendere in seria considerazione.
Professor Connett, com’é cominciata la strategia Rifiuti Zero?
In realtà il termine “Rifiuti Zero” non l’ho inventato io, però dal 1999 – quando a San Francisco ho partecipato a una conferenza sull’argomento e ho intervistato alcuni personaggi chiave per il film Rifiuti Zero: sogno idealistico o obiettivo realistico? – sono forse la persona che ha percorso più chilometri e che ha trattato l’argomento con il numero più alto di comunità, con cui ormai stiamo facendo un percorso comune. Quindi immagino sia più corretto dire che contribuisco a diffondere e definire la strategia Rifiuti Zero ogni volta che posso farlo. Il film a cui ho accennato, Rifiuti Zero: sogno idealistico o obiettivo realistico? si può vedere anche online.
Molta di quest’attività si è svolta in Italia, dove tutto ha avuto inizio nel 1996, anno in cui sono stato invitato in Toscana per offrire il mio supporto alla lotta contro la proposta di un inceneritore municipale a Pietrasanta, un comune che si trova vicino alla cava dove Michelangelo prendeva il marmo per le sue statue e che è rinomato per la sua comunità di artisti. È stato proprio a Pietrasanta, al primo incontro a cui ho partecipato, che ho conosciuto alcuni membri di “Ambiente e Futuro”, un piccolo gruppo di attivisti tra cui c’era anche Rossano Ercolini, un maestro elementare di Capannori, un comune che si estende sulle colline vicino a Lucca, città famosa per le sue mura.
Sotto la guida di Rossano e di altri attivisti straordinari come Enzo Favoino, il movimento contro l’inceneritore si è evoluto nel movimento Rifiuti Zero. Ho lavorato a stretto contatto con Rossano all’interno di entrambi i progetti, e il mio supporto è proseguito fino al 2020, quando per via della pandemia di Covid ho dovuto interrompere i miei viaggi in Italia.
Lei è stato spessissimo nel nostro Paese vero?
Ma non solo: le problematiche legate ai rifiuti mi hanno portato in più di 60 Paesi. L’Italia, insieme a San Francisco e al sud delle Filippine, è diventata un centro vitale per lo sviluppo e la diffusione del progetto Rifiuti Zero, un modello per l’Europa e per il resto del mondo. Dal 1996 al 2019 sono stato in Italia 85 volte e ho parlato in più di trecento comuni, e in alcuni di essi anche diverse volte.
Credo che il mio contributo più importante per Rifiuti Zero sia stato quello di elaborare la strategia in dieci passi. Questi passi, concreti ed economicamente vantaggiosi, permettono a qualsiasi cittadino di contribuire a far muovere la sua comunità verso l’obiettivo Rifiuti Zero. Questo si riflette nel titolo inglese del mio libro, The Zero Waste solution: Untrashing the Planet One Community at a Time (La soluzione Rifiuti Zero: ripulire il pianeta una comunità alla volta)[1]. Ci tengo a precisare che sebbene l’editore abbia indicato me come autore del libro, ho in realtà lavorato con una copiosa squadra di persone. Anzi, dieci tra i più importanti teorici ed esperti nordamericani della strategia Rifiuti Zero (come per esempio Neil Seldman, Dan Knapp, Mary Lou Deventer, Eric Lombardi, Buddy Boyd, Helen Spiegelman, Bill Sheehan, Jeffrey Morris, Gary Liss e Richard Anthony) hanno di fatto contribuito con dei saggi alla terza sezione del libro. Inoltre ci sono anche altri ricercatori provenienti da diversi Paesi che hanno collaborato nell’elaborazione dei casi di studio presenti nella seconda sezione del libro. Tra questi ci sono Cecilia Allen (Argentina), Sonia Dias (Brasile), Froilan Grate (Filippine), Patrizia Lo Sciuto (Sicilia), Joan Marc Simon (Spagna) e Tommaso Soldano (Napoli).
I passi in questione sono illustrati dal seguente diagramma:
Lei ha sempre messo in risalto l’importanza della leadership delle comunità nella transizione verso Rifiuti Zero. Si può parlare di un movimento “globale”?
Certamente. Vorrei iniziare ricordando il periodo in cui la questione ha iniziato a coinvolgermi intellettualmente. Tutto è cominciato verso la fine degli anni Settanta, quando durante una campagna contro l’energia nucleare ho letto due libri che mi hanno letteralmente cambiato la vita. Si tratta di Rapporto sui limiti dello sviluppo, uno studio condotto da Donella Meadows e altri ricercatori, e di Piccolo è bello, di E.F. Schumacher (tra l’altro in seguito ho anche avuto modo di incontrare gli autori di entrambi i libri). Per me questi testi incarnavano la differenza tra “intelligenza” e “saggezza”, una distinzione che i sistemi educativi di tutto il mondo, e in particolare quelli degli Stati Uniti, faticano a fare. Misuriamo, riconosciamo e premiamo la prima, ma è raro che si trovino dei modi per fare lo stesso con la seconda.
Quando chiedevano a Schumacher (che ci ha lasciati troppo presto) se si trovasse d’accordo con I limiti dello sviluppo, rispondeva che lui era arrivato alla stessa conclusione (ovvero quella che su un pianeta finito non può aversi una crescita infinita) facendo il calcolo sul retro di una busta, ma che le persone credono a cose del genere soltanto se vengono calcolate da un computer! Queste simulazioni al computer avevano mostrato i numerosi limiti di una crescita incontrollata, come per esempio l’esaurimento delle risorse minerarie, del combustibile fossile, della terra coltivabile, dell’acqua potabile, e i danni causati dell’inquinamento. Secondo gli autori una crescita esponenziale non avrebbe fatto che consumare tutte queste risorse, e aggravare i danni già in corso. Non ci sono soluzioni tecnologiche, nemmeno spedire dei razzi su Marte. Senza apportare dei cambiamenti al nostro approccio, e senza smettere di venerare l’idea della crescita, sarebbe stato possibile vivere seguendo gli standard del momento soltanto per cento anni ancora (ed era il 1963).
Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa è il sottotitolo di Piccolo è bello, il libro di Schumacher. È dal suo lavoro che è nata l’ispirazione del “movimento per una tecnologia appropriata”. Una volta Schumacher ha detto “Vi dico come sarebbe una rivoluzione agricola nel terzo mondo: consisterebbe nell’attaccare una punta di acciaio a tutti gli aratri di legno”. In un’altra occasione disse: “Quando mi dicono che sono un pazzo, io li ringrazio e rispondo che è splendido perchè solo i pazzi cambiano le cose”.
Cosa ci insegnano questi due libri?
Mettendo insieme i messaggi di questi due libri, penso che quello che dobbiamo imparare non sia altro che vivere su questo pianeta rispettando i limiti che ci impone la Natura. Come ha detto il biologo E.O. Wilson: “sono le piccole cose che fanno andare avanti il mondo”. A guardarlo in prospettiva, è chiaro come questo messaggio mi abbia ispirato, e come abbia anche caratterizzato il movimento Rifiuti Zero.
Dal punto di vista della mia vita personale direi che il mio primo punto di contatto con questa discussione globale è stato l’inquinamento. Al tempo insegnavo General studies al Paddington Technical College di Londra, e questo mi dava la possibilità di condividere ogni sorta di argomenti (diversi dalle competenze necessarie ai mestieri per cui si studiava lì) con una gamma di studenti che andava da tecnici del gas a tecnici di laboratorio medico.
Come dice John Lennon in una delle sue canzoni (Beautiful Boy) “La vita è quello che succede mentre sei impegnato a fare altri progetti”, e questo mi pare un ottimo modo per riassumere gran parte della mia esistenza. Dopo essermi laureato a Cambridge nel 1962, ho insegnato in una scuola privata per tre anni e nel 1966 sono partito per gli Stati Uniti per iniziare un dottorato di ricerca in Biochimica alla Cornell University. Ho abbandonato il dottorato a causa della mia partecipazione al movimento per la pace in Vietnam, e questo a sua volta mi ha portato a partecipare attivamente a una serie di altre campagne, come quella contro la candidatura di Eugene Mc Carthy alla presidenza degli Stati Uniti, la campagna per il Biafra, quella per il Bangladesh, e alla fine anche la campagna anti nucleare nel 1978. Non mi sarei mai aspettato di tornare nuovamente a insegnare delle materie scientifiche. Il programma di General Studies al Paddington College, dove ho insegnato dal 1972 al 1979 non comprendeva nessun argomento scientifico, ma nel 1978 ho iniziato un Master sull’inquinamento alla Brunel University e questo mi piacque veramente tanto.
Cosa l’ha riportata in America?
Purtroppo, un anno dopo aver iniziato il corso, il fratello di mia moglie ha avuto un brutto incidente, e questo ci ha costretti a rientrare negli Stati Uniti. Così sono tornato a essere uno studente (anche se avevamo già tre figli al tempo), e dal 1979 al 1981 mi sono dedicato a un dottorato di ricerca in Chimica al Dartmouth College nel New Hempshire. Appena ho concluso il dottorato ho iniziato a insegnare Chimica alla St. Lawrence University, e sono rimasto lì dal 1983 fino al mio pensionamento (2006).
Insegnavo all’università solo da due anni quando, nel 1985, alcune autorità locali hanno proposto la costruzione di un inceneritore municipale nella nostra zona. Io e mia moglie ci siamo mobilitati per opporci a questo progetto, e alla fine è nato il gruppo Work on Waste USA, e abbiamo aiutato molte comunità nordamericane a fermare la costruzione di almeno trecento inceneritori.
Così ho sviluppato un approccio sistemico alla strategia Rifiuti Zero e alla sua relazione con i problemi globali, una relazione che mi si è rivelata per la prima volta grazie alla lettura del Rapporto sui limiti della crescita.
Può spiegare meglio gli aspetti globali della strategia Rifiuti Zero?
Se impariamo a sfruttarla in modo efficiente, l’energia che ci fornisce il sole è pressoché infinita, ma un rifornimento infinito di risorse materiali non esiste: queste dobbiamo imparare a gestirle al modo della natura. La natura non crea rifiuti, i rifiuti sono un’invenzione umana, e quello che dobbiamo escogitare è un modo per eliminarli dal nostro sistema. Noi, le comunità, dobbiamo rivolgerci all’industria dicendo che se qualcosa non può essere riutilizzato, riciclato o compostato, allora non dovrebbe nemmeno essere prodotto. Siamo nel XXI secolo ed è decisamente tempo di esigere un design industriale migliore.
In pratica si tratta della quarta R da lei introdotta?
La maggior parte delle persone ha sentito parlare delle tre R, ovvero Riduzione, Riuso e Riciclo (compostaggio incluso). La quarta R è quella della Riprogettazione (Re-design). Alcuni dei leader mondiali più illuminati, specialmente in Europa, stanno iniziando a tenerla in considerazione mentre propongono la sostituzione di un’economia lineare con un’economia circolare.
Fa veramente riflettere sapere che se tutti consumassero quanto consuma un cittadino americano medio ci servirebbero almeno cinque pianeti, ma fa riflettere ancora di più osservare come il resto del mondo (India e Cina incluse) non faccia che imitare i nostri modelli di consumo. Sembra che la maggior parte del mondo stia seguendo la filosofia americana (particolarmente evidente nella forma dello spot pubblicitario) secondo la quale “più consumi più sei felice”. La realtà è invece ben diversa, infatti “più consumi, più diventi grasso e più rifiuti produci”.
Per farla breve, viviamo su questo pianeta come se ne avessimo un altro su cui andare, e questo si riassume benissimo nell’immagine usata per la copertina dell’edizione inglese del libro di George Ritzer, La mcdonaldizzazione del mondo nella società digitale (vedi figura 2).
Chiaramente non si può più andare avanti così, serve un cambiamento…
A mio avviso il punto di partenza migliore per questo cambiamento sono i rifiuti. Tutti noi produciamo rifiuti ogni giorno, e tutte le volte che lo facciamo alimentiamo uno stile di vita che su questo pianeta è insostenibile: con una buona guida politica – specialmente a livello locale – possiamo invece passare a uno stile di vita sostenibile. Il passaggio da un’economia lineare a una circolare è qualcosa a cui tutti noi possiamo concretamente prendere parte.
In che modo la strategia Rifiuti Zero può aiutarci a superare l’economia lineare e a muoverci verso un’economia circolare?
L’economia lineare (figura sotto), parte con la rivoluzione industriale in cui gli esseri umani in circa trecento anni hanno rimpiazzato il modo circolare in cui la natura ricicla i materiali con il sistema a senso unico dell’economia lineare, che comporta l’estrazione, la produzione e il consumo di risorse limitate per poi trasformarle in rifiuti… e ci sono addirittura delle persone che guardano all’aumento della velocità con cui riusciamo a fare tutto questo e lo chiamano “progresso”.
A molti cittadini non piace il modo in cui viene gestita la fase finale, quella dei rifiuti
Molti cittadini (me incluso) hanno iniziato a interessarsi e a mettere in discussione questo sistema lineare perché in effetti non gli piace il modo con cui finora è stata gestita la fase dei rifiuti. Alla gente non piace vivere vicino alle discariche o agli inceneritori. All’inizio quelli che si opponevano a queste strutture venivano derisi come se fossero dei Nimby egoisti, e questo nonostante la nostra opposizione si fondasse su un’analisi razionale dei rischi pubblici e ambientali a cui si andava incontro. Nell’ultima parte del XX secolo l’opposizione delle comunità si concentrava sulla tossicità del percolato prodotto dalle discariche, sulle emissioni atmosferiche degli inceneritori (metalli tossici, diossine e furani e altri prodotti di combustione incompleta) e sulle relative discariche di ceneri tossiche.
Due questioni emerse con forza nel corso del secolo scorso?
Certo. Innanzitutto è nata la consapevolezza che il sistema dell’incenerimento, rimane comunque un sistema insensato anche al netto dei suoi problemi di sicurezza. Ogni volta che si brucia qualcosa si deve tornare alla prima fase dell’economia lineare, estrarre delle nuove materie prime e ricominciare di nuovo tutto il processo, e lo stesso può dirsi anche delle discariche. È chiaro che né le discariche né gli inceneritori possono condurci verso un’economia circolare, anzi, entrambi non fanno che perpetuare l’economia lineare. Questi metodi rappresentano il perpetuarsi dell’ordinaria amministrazione in un momento in cui, di fronte all’emergenza di un pianeta che sta esaurendo le sue risorse, non possiamo di certo permetterci di proseguire secondo l’ordinaria amministrazione.
Ma è davvero possibile arrivare a un mondo senza rifiuti?
Sempre più attivisti e politici si sono resi conto che bisogna smettere di chiedersi in che modo liberarsi dei rifiuti e incominciare piuttosto a chiedersi come si possa eliminare la produzione di rifiuti. Gli imperativi sono molto chiari:
- bisogna abbassare il più possibile la produzione di rifiuti, anche arrivando a “zero rifiuti”;
- bisogna eliminare la parola “rifiuti” dal dizionario;
- bisogna parlare di “gestione delle risorse” non di “gestione dei rifiuti”;
- bisogna spostare l’attenzione dalla fase finale (smaltimento dei rifiuti e degli scarti) a quella
iniziale del problema (l’utilizzo del materiale e il design del prodotto);
- bisogna progettare i prodotti e scegliere i materiali con cui produrli in modo che possano essere condivisi con il futuro, facilmente riparabili, riutilizzabili, riciclabili o compostabili.
I prodotti nati da un migliore design, se ben riusciti, quando arrivano alla fine della loro prima “vita” sono pronti per andare ad alimentare i primi cinque passi della strategia Rifiuti Zero:
- Separazione alla sorgente;
- Raccolta porta a porta;
- Compostaggio;
- Riciclo;
- Riuso e riparazione.
Se non riescono ad attraversare con successo queste prime cinque fasi, significa che bisogna implementare la fase di ricerca in modo da individuare gli errori nel design, e questa è la fase numero 6, quella che prevede il Centro di Ricerca Rifiuti Zero.
Questa ricerca combinerà la spinta verso un design migliore (step 6 della strategia in dieci passi), con l’individuazione dei modi in cui le autorità politiche possano vietare oppure tassare imballaggi e prodotti mal progettati (step 7). A questo punto si potranno ulteriormente educare i cittadini sul problema del materiale residuo, e qui entra in gioco il PAYT, l’incentivo economico (step 8).
Ci spiega meglio il PAYT?
PAYT sta per Pay-As-You-Throw (paghi in base a quello che getti). Si tratta di un incentivo economico efficace che penalizza la frazione indifferenziata: più se ne produce più si paga, meno se ne produce e più si risparmia. In alcune città italiane questo ha ridotto l’indifferenziata del 15%. Il più semplice di questi sistemi PAYT è probabilmente quello introdotto a Seattle, dove verso la fine degli anni Ottanta si è avviato un servizio di riciclo porta a porta: ogni abitazione è stata fornita di contenitori per la frazione indifferenziata, e ognuno era libero di scegliere la grandezza del contenitore in questione (piccolo, medio o grande). Un meccanismo semplice: più il contenitore scelto era grande, più la bolletta dei rifiuti diventava costosa!
Non ci sarà comunque bisogno di discariche?
Per i primi anni ci sarà ancora bisogno di avere una discarica a disposizione, per via dei possibili insuccessi nel design, nell’organizzazione locale e nella cooperazione dei cittadini. Saranno comunque delle discariche diverse: bisogna mettere in discussione l’attuale approccio ingegneristico in cui si controlla ciò che esce da una discarica piuttosto che ciò che vi entra. Questo tipo di approccio è destinato al fallimento perché, prima o poi, tutte le discariche hanno delle fuoriuscite. Nella discarica Rifiuti Zero (una discarica di transizione) quello che si controlla è ciò che entra, e lo si fa con degli appositi impianti di separazione edificati proprio di fronte alla discarica (passo 9). In Nuova Scozia per esempio questa è già una realtà, e tutti i residui vengono separati e sottoposti a cernita, gli oggetti più ingombranti vengono recuperati, gli elementi tossici rimossi, e la frazione organica sporca viene stabilizzata fuori terra attraverso una seconda fase di compostaggio o un processo di digestione anaerobica. Il materiale biologicamente stabilizzato che ne deriva può essere utilizzato per la copertura della discarica oppure per bonificare le aree contaminate.
Nella figura sotto si vede in che modo il gruppo britannico WRAP si figura i cambiamenti necessari per passare da un’economia lineare a una circolare.
Quali sono le comunità che hanno seguito strategie “Rifiuti Zero” e a che punto sono?
Ci sono esperienze di grande successo in tre continenti diversi: in Italia, per quanto riguarda l’Europa, a San Francisco per l’America e nelle Filippine per l’Asia. In Italia, ad oggi, Zero Waste Italy ha reclutato 320 municipi per una popolazione totale di sette milioni di persone. E insieme a queste comunità pioniere ce ne sono molte altre che, secondo le cifre fornitemi da Enzo Favoino, hanno raggiunto dei ragguardevoli tassi di differenziazione (i dati sono aggiornati al 2018 ma pare che quelli del 2019 siano notevolmente migliorati). Queste cifre a esempio, indicano che su 108 province ce n’erano 40 con un tasso di separazione alla sorgente che superava il 65%, e tra queste ce n’erano 4 che raggiungevano una media dell’80%. In testa a tutte era la provincia di Treviso (con oltre un milione di abitanti) arrivata a un tasso dell’88%. Su 20 regioni inoltre, 10 avevano una media superiore al 60%, e 6 di queste, superavano il 70%. La regione Veneto, con una popolazione di cinque milioni di persone, ha raggiunto il punteggio migliore, con una media del 78%, seguita dalla Lombardia (una popolazione di dieci milioni di persone) che arrivava al 72%. Su 8000 comuni ce n’erano 3.298 con un tasso di separazione superiore al 70%, 1.168 con un tasso superiore all’80% e 122 erano al di sopra del 90%.
Vogliamo soffermarci un po’ su come sono stati ottenuti questi dati?
Il metodo di Favoino mostra l’impatto che questi programmi hanno sulla frazione indifferenziata servendosi di un sistema di misurazione che divide la frazione indifferenziata totale generata dal comune, per il numero di abitanti in modo da ottenere i kg pro – capite all’anno. Stando a questo sistema di misurazione, 2.409 municipi hanno generato meno di 100 kg di indifferenziata annua pro – capite, 352 comuni sono rimasti sotto i 50 kg, e 39 sotto i 30 kg. Mentre per quanto riguarda le città modello “Rifiuti Zero”, Capannori è quella che ha dato il primo esempio dichiarando per prima il programma Rifiuti Zero (2006). Capannori è anche stata la prima a dar vita a un centro di ricerca Rifiuti Zero (2010), e la prima a creare dei centri di Riuso e Riparazione gestiti dalla comunità, mostrando che questi possono creare molti posti di lavoro e sostenersi autonomamente. Adesso nella zona Capannori-Lucca i centri per il riuso sono quattro. Prima di concludere il discorso sull’esperienza europea aggiungerò un altro esempio interessante. La parte fiamminga del Belgio, dopo aver imposto una moratoria sui nuovi inceneritori alla fine degli anni Ottanta, ha promosso diversi programmi per ridurre notevolmente la produzione di rifiuti attraverso una serie di incentivi statali. Direi che a livello regionale questo è probabilmente il miglior esempio di un governo che porta avanti una gestione sostenibile dei rifiuti. Il risultato è che questa regione, in cui vivono più di sei milioni di persone, ha raggiunto dei tassi di differenziazione del 75% , mentre il restante 25% va agli inceneritori preesistenti. Ho il sospetto che senza la presenza di questi inceneritori il tasso di diversione sarebbe ben più alto, e credo che la Germania, l’Olanda, la Svezia e la Svizzera abbiano lo stesso tipo di impedimento nel loro percorso verso Rifiuti Zero: pur promuovendo il riciclo, hanno comunque bisogno di alimentare quei mostri per la cui costruzione hanno speso moltissimo denaro che devono dunque ammortizzare. Questo discorso vale in modo particolare per la Danimarca, che brucia la quantità più alta di rifiuti d’Europa (e poi manda le ceneri in Norvegia!).
È importante sottolineare infine che i tassi di separazione non tengono in considerazione il materiale rifiutato agli impianti di riciclaggio e compostaggio, e quindi i tassi di differenziazione reali sono circa il 10% in meno rispetto alle cifre fornite sotto.
E per quello che riguarda gli USA?
L’esperienza principale è quella di San Francisco, una città non troppo grande, dove abitano 850.000 persone, che nel 2011 ha raggiunto un tasso di differenziata dell’80%. Da allora il tasso di differenziata si è stabilizzato, fondamentalmente perché le misure prese dall’industria per migliorare il design non sono rimaste al passo con le iniziative municipali. A livello economico è interessante osservare che Recology, l’azienda che ha il contratto di ritiro per il sistema a tre contenitori per i materiali che vengono separati alla fonte, compostabile, riciclabile e residuo (vedi figura 6), possiede le strutture di riciclo e quelle di compostaggio, ma non la discarica.
In altre parole lei sta dicendo che Recology non trae nessun guadagno dai rifiuti…
Esatto! Almeno non da quelli che vanno alla discarica, di cui è invece proprietaria la concorrenza. Per questo motivo può a buon diritto dichiararsi un’azienda che si occupa di risorse piuttosto che di rifiuti. Per di più l’azienda appartiene ai lavoratori, quindi a San Francisco ci sono letteralmente migliaia di persone il cui personale interesse finanziario coincide difatti con il successo di Rifiuti Zero.
Veniamo adesso all’esperienza nelle Filippine
Nelle Filippine, GAIA, la Global Alliance for Incineration Alternatives (Alleanza Globale per le Alternative all’Inceneritore) e la Mother Earth Foundation (Fondazione Madre Terra) hanno avviato con successo dei programmi Rifiuti Zero a livello dei Barangay. Un Barangay è la più piccola unità politica delle Filippine, e a Manila ce ne sono letteralmente centinaia.
La Mother Earth Foundation, guidata da Froilan Grate, è stata in grado di dimostrare come in un Barangay di Manila fosse possibile mettere in atto la separazione alla sorgente, la raccolta porta a porta (per la quale sono stati impiegati degli ex raccoglitori di rifiuti), riciclaggio e compostaggio (vedi figure 7 e 8). Per questo progetto è stata fondamentale la costruzione e la gestione di diversi MRF a bassa tecnologia (Material Recycling Facility – impianti per il riciclo dei materiali) dove i materiali riciclabili venivano selezionati e immagazzinati per essere poi venduti per il riciclo tradizionale. In alcuni MRF ci si occupava anche di compostaggio e di coltivazione. Poi la Mother Earth Foundation ha portato questo metodo su grande scala in modo da estenderlo anche alla più grande città di San Fernando.
San Fernando è il capoluogo della provincia di Pampanga, una città con una popolazione di 350.000 abitanti che durante il giorno raggiunge il milione. Nel 2012, sei mesi dopo aver adottato la strategia Rifiuti Zero, vi si è raggiunto un tasso di diversione del 55% e sono nati dei nuovi posti di lavoro per gli ex raccoglitori di rifiuti. Adesso si è raggiunta una diversione dell’80% (la più alta rispetto alle altre città del Paese). Nel corso del processo sono stati costruiti 180 MRF, uno per ciascun Barangay, scuola e rione. Questo ha anche fatto nascere più di cento green jobs per gli ex raccoglitori di rifiuti che adesso sono organizzati in un’associazione il cui presidente fa anche parte della Commissione cittadina per la gestione dei rifiuti solidi. II risparmio economico è stato enorme. Nel 2012 la gestione dei rifiuti è costata alla città 1,4 milioni di dollari, prima del 2014 questi costi sono scesi a 300.000 dollari. In qualsiasi modo lo si misuri, quello di San Fernando è un vero e proprio successo.
Lei ha sempre evidenziato il fatto che Rifiuti Zero sia un movimento dal basso, ma ci sono dei modi in cui il governo centrale può aiutare gli sforzi della comunità locale?
Sì, certo. Serve che i governi nazionali usino il loro potere di tassazione per scoraggiare lo smaltimento della frazione residua (discariche e inceneritori) e per premiare invece il recupero dei materiali (riuso, riciclaggio e riparazione). Si spera che i governi non facciano lo stesso errore del Regno Unito, dove si tassano le discariche ma non si penalizza in alcun modo l’incenerimento. Dal mio punto di vista il modo più sensato di portare avanti tutto questo sarebbe quello di un sistema fiscale neutro in cui le sanzioni per il residuo vanno dalle comunità al governo centrale, e per ogni tonnellata di materiale che viene riutilizzata, riciclata o compostata, la stessa quantità di denaro affluisce dal governo centrale fino a tutte le comunità. Punire i cattivi e premiare i buoni.
Mi piacerebbe anche che i governi stanziassero dei fondi per avviare dei centri di riuso e riparazione nelle comunità. Questi ci mettono poco a diventare autosufficienti e a pagare i dividendi in diversi modi, dalla creazione di nuovi posti di lavoro e di nuovi percorsi di formazione, di incentivazione alle piccole imprese, dell’educazione e dello sviluppo complessivo della comunità.
I governi possono anche giocare un ruolo importante nella creazione di centri di ricerca Rifiuti Zero e nel far convogliare i risultati dell’impegno locale nell’impegno di una ricerca nazionale. Questi fondi si potrebbero ricavare dai finanziamenti per l’educazione superiore, è bene infatti che in quest’ambito ci si impegni nell’educazione degli studenti sui cambiamenti necessari per la transizione da un’economia lineare a una circolare. Mi piacerebbe se questi centri di ricerca si sviluppassero all’interno della comunità (e non dell’università), che fossero parte integrante dei centri comunitari di riuso e riparazione, perché serve che i nostri professori e i loro studenti lavorino con e per la comunità. Non credo ci debba essere un dipartimento accademico specifico in testa a questa ricerca, credo che debbano essere tutti ugualmente coinvolti. A tutte le discipline spetterebbe il compito di trovare i collegamenti tra il loro campo, l’economia circolare e la sostenibilità. È importante che tutti noi prendiamo parte a questo movimento. Credo che il continente che abbia iniziato a individuare meglio i passi necessari per dirigersi verso un’economia circolare sia proprio l’Europa. Le nostre speranze hanno iniziato a crescere quando Zero Waste Europe si è accorta del fatto che un rapporto del 2014 – stilato dalla Commissione Europea per il Parlamento Europeo, e intitolato “Verso un’economia circolare: un programma a Rifiuti Zero per l’Europa” – usava l’espressione “Rifiuti Zero” nel titolo, ma nel corpo del testo non affrontava minimamente la questione di cosa fosse un programma Rifiuti Zero. Ad ogni modo, in seguito il Commissario Europeo Vella ha invece fatto riferimento a diverse città italiane (come per esempio Parma, Treviso e Capannori) come a degli esempi concreti della transizione che serve a livello locale per dirigersi verso un’economia circolare.
Se lei dovesse identificare un singolo elemento che faccia la differenza, quale sarebbe?
Gli individui! Siamo noi che possiamo davvero fare la differenza! Mentre aspettiamo notizie migliori a livello nazionale, regionale e continentale, dobbiamo anche riconoscere l’ispirazione che i singoli pionieri possono portare al movimento Zero Waste con la loro creatività. Di recente la BBC ha proposto la storia di Joost Bakker, un australo-olandese che incarna un favoloso esempio di quello che un individuo può ottenere sul fronte Rifiuti Zero.
Va bene, lei sottolinea l’importanza del ruolo giocato dagli individui e delle comunità in questo movimento, ma cosa ci dice invece sul ruolo delle grandi multinazionali?
Per quanto riguarda le multinazionali ci sono delle notizie molto buone e delle altre molto brutte.
Cominciamo allora da quelle buone
La prima buona notizia è che ci sono multinazionali che producono beni durevoli, come macchine, televisori, fotocopiatrici, che sono molto avanti dal nostro punto di vista. In Europa per esempio, l’azienda Xerox recupera più del 95 percento dei materiali (macchine intere, parti o materiali) dalle fotocopiatrici in ventuno diversi Paesi. Quando nel 2000 ho visitato il loro impianto in Olanda mi hanno fatto presente che con questa operazione risparmiavano circa settanta milioni di dollari all’anno. Mi hanno anche raccontato che questo programma non è nato per motivi ambientali, ma al fine di risparmiare sui costi di produzione. Adesso non solo hanno constatato che ci sono dei risparmi anche sui costi di smaltimento, ma che per via del contributo alla sostenibilità si sono anche guadagnati un’approvazione generale da parte della collettività.
Molte multinazionali stanno cominciando ad adottare strategie sostenibili non solo per motivi ecologici ma anche per motivi economici. Questo è quello che le multinazionali vogliono sentire: fare la cosa più giusta fa anche risparmiare del denaro! Molte aziende stanno cominciando a produrre plastica riutilizzabile anzichè “usa e getta” e questo perchè vi trovano una convenienza economica e non solo perché l’Unione Europea ha approvato la direttiva SUP (Single Use Plastic) entrata in vigore a luglio scorso. Questa norma infatti proibisce l’utilizzo di plastica monouso per ben dieci prodotti [1] che in molte comunità erano già stati vietati in ossequio ai principi dell’economia circolare secondo la quale la materia deve poter avere una seconda vita e non finire in discarica o nei “termovalorizzatori”.
Gary Liss, un collega che ha dedicato molti anni alla promozione di Rifiuti Zero per le imprese e che dirige una società di consulenza è stato nominato primo presidente del gruppo U.S. Zero Waste Business Council . Gary è stato così gentile da contribuire al mio libro su Rifiuti Zero con un suo saggio in cui parla del suo lavoro e della sua filosofia. A partire dal 2000 ho trovato sempre molto divertente che alle conferenze Rifiuti Zero negli Stati Uniti, dopo aver chiesto al pubblico “Se non volete Rifiuti Zero, quanti rifiuti volete?”, Gary Liss guida la risposta in uno stentoreo “ZERO!”
E le brutte?
Le brutte notizie vengono dalle aziende specializzate nella produzione di beni di breve durata e degli imballaggi, poiché la loro stessa esistenza dipende dal fatto che si continui a perpetuare l’economia lineare. L’industria di cibo e bevande gioca una parte molto importante nel passaggio verso le confezioni riutilizzabili. Intanto in diverse parti del mondo c’è stata una mobilitazione di comunità e gruppi ambientalisti che si battono per la messa al bando (come in Europa) di sacchetti di plastica, cannucce, bustine monouso, microplastiche, e di altri prodotti che rappresentano vere e proprie offese per l’ambiente.
Secondo lei quali sono i maggiori ostacoli per il movimento Zero Waste?
Credo che le tre grandi minacce siano la lobby degli inceneritori, i cementifici e l’industria della plastica.
Cominciamo con la lobby degli inceneritori
Purtroppo molti politici a parole sostengono Rifiuti Zero, ma in pratica ricadono nell’ottica di “smaltire i rifiuti” piuttosto che in quella di eliminare il concetto stesso di “rifiuti” dal nostro sistema. La lobby degli inceneritori è sempre prontissima a mettere al servizio di questa causa il suo incredibile talento in materia di greenwashing”. Basta aggiungere due paroline a “Rifiuti Zero” e ci ritroviamo di colpo risucchiati nell’economia lineare. Queste paroline sono “in discarica”. Basta pronunciarle e la nostra intera missione è rovinata. E come si fa ad azzerare i rifiuti in discarica? Si bruciano vero? Si, con tutta una serie di “macchine prodigiose” che “aspettano” dietro le quinte.
Di colpo invece di impegnarsi nella missione lunga e complessa di eliminare il cattivo design dei prodotti e degli imballaggi, basta semplicemente darli alle fiamme e il gioco è fatto. Il potere delle pubbliche relazioni di queste lobby è talmente efficace che alcune autorità locali, e persino alcune organizzazioni ambientaliste, si stanno facendo ingannare da questo greenwashing dell’incenerimento. Nessun accenno allo spreco di energia grigia che comportano l’estrazione, la produzione e il trasporto di sempre maggiori quantità di prodotti quando invece si continua a parlare di queste strutture come di “impianti per la trasformazione di rifiuti in energia”. Si porta avanti la falsa dicotomia che contrappone l’inceneritore alla discarica piuttosto che contrapporre entrambi a un programma Rifiuti Zero onnicomprensivo che ridurrebbe drasticamente la produzione dei rifiuti e l’energia richiesta da sempre crescenti nuovi cicli di produzione. Il greenwashing della lobby degli inceneritori arriva a distorcere ulteriormente la realtà fino ad affermare che l’incenerimento riduce il riscaldamento globale e il cambiamento climatico, quando in realtà è chiaro che ostacolando l’avanzare di Rifiuti Zero non si fa che sprecare la vera opportunità di combattere il riscaldamento globale, ovvero quella rappresentata dal riuso, dal compostaggio e dal riciclo.
I sostenitori dell’incenerimento parlano di nuove tecnologie più pulite e efficienti
Sciocchezze! Innanzitutto, la combustione è totalmente contraria ai principi dell’economia circolare: ciò che si brucia non può tornare in circolo! Mi pare evidente. Ma poi, dal punto di vista della combustione la minaccia più grande per Rifiuti Zero non viene dalle nuove patinate (e peraltro mai dimostrate) tecnologie “efficienti” per bruciare e gassificare, ma si presenta nella forma di vecchi catorci chiamati cementifici. In giro per il mondo ce ne sono molti che bruciano enormi quantità di rifiuti, e spesso chi si accorge delle conseguenze sulla salute per le persone sono proprio le comunità locali. Ho provato ad aiutare diverse comunità in tutto il mondo (per esempio in Spagna, Italia, Messico, Mozambico, Serbia, Slovenia, Grecia; Regno Unito, Canada e Stati Uniti) a difendersi dallo sviluppo di questa realtà insidiosa.
Potrebbe spiegare meglio cosa c’è di “insidioso” in questa realtà?
- Gli impianti dei cementifici esistono già, e chi vuole usarli per bruciare rifiuti non si trova a fronteggiare quelle battaglie che invece scaturiscono ogni volta che a una comunità viene proposto un inceneritore.
- I gestori dei cementifici sono dei professionisti quando si tratta di produrre cemento, ma quando si trovano di fronte alle complessità di una combustione sicura sono dei veri e propri dilettanti.
- Bruciare rifiuti (di qualsiasi tipo) fa risparmiare tantissimo denaro all’industria del cemento. Invece di pagare per del combustibile (carbone, pet-coke, petrolio o gas naturali) le aziende vengono pagate per bruciare i rifiuti. Alcune di queste si sono addirittura vantate del fatto che bruciando rifiuti pericolosi guadagnano di più che producendo cemento!
- I limiti per le emissioni sono meno rigorosi rispetto a quelli degli inceneritori.
- Come succede anche nel caso degli inceneritori, il monitoraggio delle emissioni è del tutto inadeguato. Per esempio, per l’identificazione di diossine e metalli tossici, piuttosto che un’analisi continua delle emissioni si fanno soltanto dei test a campione; per migliaia di sostanze perfluorurate (“le sostanze chimiche eterne”) non è previsto alcun monitoraggio; nemmeno le emissioni di nano particelle vengono monitorate (né sottoposte ad alcuna regolamentazione), nonostante gli studi abbiano dimostrato che la loro superficie può contenere delle sostanze estremamente tossiche che sfuggono facilmente ai dispositivi di controllo dell’inquinamento dell’aria, e che penetrano attraverso le membrane dei polmoni a tutti i tessuti del corpo umano. A Montreal un recente studio ha mostrato una relazione tra il numero di nano particelle nell’aria urbana e l’aumento di cancro al cervello (Weichenthal et al. 2020).
- Spesso questi cementifici sono terribilmente vicini a scuole o a luoghi abitati. Nella foto sotto si può vedere un cementificio in Spagna, sorto vicino a una piccola cittadina nei pressi di Siviglia.
Poi lei menzionava anche la plastica
L’altro grande nemico di Rifiuti Zero è in effetti l’industria della plastica. Questa ha sempre supportato l’incenerimento perché è un modo per far sparire dalla circolazione le prove di un cattivo design industriale, a maggior ragione data la crescente valanga di prodotti di plastica monouso. Non ci sono esempi migliori per mettere così bene in rilievo la differenza tra intelligenza e saggezza. L’inventore della plastica ha vinto il premio Nobel per aver dato vita a un materiale che può durare per centinaia di anni e poi ci sono società che stoltamente permettono che i prodotti fatti di questi materiali vengano usati solo per pochi minuti! Non c’è niente che simboleggi meglio quanto miope sia il tentativo di far funzionare una società lineare su un pianeta finito.
Principalmente a causa della grande minaccia che questi oggetti usa e getta costituiscono per gli oceani, si sono formate della grandi organizzazioni che ne combattono la produzione e denunciano l’astuzia dell’industria della plastica e delle sue pubbliche relazioni. Tra questi ci sono Beyond Plastics e Break Free from Plastics.
Cosa possiamo imparare dalla crisi sanitaria?
Le grandi crisi di solito costringono la gente a unirsi. Se vogliono sconfiggere il nemico comune, anche in quest’ambito, le comunità e i Paesi devono imparare gli uni dagli altri e lavorare insieme. Credo che ci sia bisogno di fare lo stesso per combattere la nostra carenza di sostenibilità. Secondo la mia esperienza la cooperazione sul fronte Rifiuti Zero si sviluppa principalmente a livello locale. Per esempio, l’esperienza italiana di Capannori ha ispirato il sindaco di Hernani, in Spagna, ad adottare lo stesso modello per la separazione alla sorgente e per la raccolta porta a porta. Il sindaco di Hernani a sua volta, durante un viaggio ha condiviso la sua esperienza con diverse città del Cile. Froilan Grate, che ha avviato la gestione di Zero Waste a livello dei Barangay nelle Filippine, ha condiviso il loro modello con Bandung, in Indonesia, e con delle comunità vietnamite.
Questa collaborazione tra comunità è sostenuta ulteriormente dal lavoro di GAIA (Global Alliance for Incineration Alternatives – “Alleanza Globale per le Alternative all’Incenerimento”) che tiene informati i membri in 89 Paesi con notizie sugli esempi ben riusciti di Rifiuti Zero in tutto il mondo (www.no-burn.org). GAIA ha un’attenzione particolare per la vita e il sostentamento di quei raccoglitori di rifiuti che adesso in molti Paesi dell’America Latina e dell’Asia sono la colonna portante del movimento Rifiuti Zero. Un altro stimolo a livello della cooperazione internazionale sulla questione è la Zero Waste International Alliance.
Mister Connett, lei ha incontrato Papa Francesco. Può raccontarci come è andata?
L’incontro è stato molto emozionante a livello personale, ma molto breve. Non c’è stato il tempo, quindi, di approfondire nessun argomento specifico. È successo sabato 19 aprile 2016, in una di quelle grandi riunioni in Piazza San Pietro durante le quali il Papa incontra letteralmente centinaia di persone e attraversa la folla sulla sua papa-mobile salutandone altre migliaia. Io fui invitato dal Dr. Mario Malconico (un esperto di riciclo della plastica) che aveva organizzato la conferenza IUPAC sulle microplastiche tenutasi al CNR a Roma.
Alla conferenza avevo fatto una presentazione di Rifiuti Zero ponendo l’accento sull’eliminazione della plastica monouso dal mercato. Mario era riuscito a organizzare un incontro con Papa Francesco per sei delle persone che partecipavano alla conferenza. Dopo un’attesa in una lunga fila dietro una barriera adiacente al posto in cui era il Papa, quando arrivò il mio turno, riuscii a porgere al Pontefice una copia del mio libro su Rifiuti Zero. Sapevo che non avrei avuto molto tempo, ma riuscii comunque a dire “Grazie per quello che sta facendo per l’economia circolare”, e aggiunsi “L’Italia ha dei progetti Rifiuti Zero meravigliosi”. Incontrare qualsiasi Papa per me sarebbe già stata un’esperienza elettrizzante, ma Papa Francesco è veramente speciale, e devo dire che mi sentivo doppiamente elettrizzato. Non so se abbia avuto modo di dare un’occhiata al libro, ma spero che magari qualcuno dei suoi assistenti lo abbia fatto, anche se non ho avuto loro notizie. Questa foto che ci hanno scattato mi piace molto (l’uomo sulla destra della foto è Mario Malconico).
Figura 13. Paul Connett che porge una copia del suo libro a Papa Francesco.
In conclusione quali sono i vantaggi di Rifiuti Zero e dell’economia circolare?
Il movimento Rifiuti Zero è un movimento dal basso. I dieci passi verso Rifiuti Zero offrono un modo concreto per far sì che il passaggio da un’economia lineare a una circolare entri nel raggio d’interesse e di azione di ogni cittadino. Si possono coinvolgere tutti gli strati della società, bambini, maestri e professori inclusi, e riconvertire ex raccoglitori di rifiuti, impiegati del settore alberghiero e della ristorazione, agricoltori, chi si occupa di gestione risorse, aziende pubblicitarie, filosofi, artisti, media e chiunque si occupi di comunicazione, progettisti accademici e industriali, attivisti che fanno parte di organizzazioni non governative e autorità locali.
Oltre che contribuire a risolvere un problema globale, Rifiuti Zero offre molti vantaggi locali, come la creazione di posti di lavoro, la formazione professionale, crea nuove opportunità per le piccole imprese, stimola la crescita della comunità (centri di riciclaggio, di compostaggio, di riuso e di riparazione), e lo sviluppo di percorsi di ricerca a tutti i livelli accademici (centri di ricerca Rifiuti Zero), senza contare le occasioni di svago e di coinvolgimento delle famiglie (centri e parchi di riuso).
Soprattutto – in un periodo in cui la gente è spaventata, quasi paralizzata, di fronte alle enormi sfide del cambiamento climatico, allo scarseggiare delle risorse e all’inquinamento della plastica negli oceani – Rifiuti Zero dimostra in modo tangibile che si possono fare dei passi concreti nella giusta direzione. Sebbene nessuno pensi che si possa arrivare a rifiuti zero dall’oggi al domani, quello che possiamo fare è far conoscere gli esempi di realtà che sono vicine alla meta, siano esse comunità (dal piccolo villaggio alla grande città) o multinazionali di ogni dimensione. Specialmente in un momento in cui sempre più persone si rendono conto che c’è bisogno dei cambiamenti di paradigma di cui abbiamo parlato, queste realtà si offrono come un’abbondante gamma di buoni esempi da emulare.
Ogni giorno i nostri figli si sentono dire che non hanno un futuro, e questa strategia concreta, che passo dopo passo si avvicina sempre di più a un cambiamento globale, può di certo offrirgli più speranza di qualsiasi altra cosa.
Per concludere con una nota personale, poche settimane fa ho dato il benvenuto al mondo al mio terzo nipote. Dedico a lui questo mio intervento. A lui e agli altri bambini che stanno arrivando in quello che speriamo diventi presto un mondo migliore.
Figura 14. Una foto di Little Teddy, figlio di Michael Connett e della sua partner Emily, nato a Long Beach, in California, il 12 maggio 2021.
[1] Si tratta della direttiva 904/2019, approvata a luglio 2019 e entrata in vigore appunto 2 anni dopo nel luglio di quest’anno che proibisce la plastica monouso per bastoncini ovattati per le orecchie (cotton fioc), piatti, posate e cannucce, palloncini e bastoncini per palloncini, contenitori da cibo, bicchieri, mozziconi di sigarette, buste per la spesa, pacchetti e imballaggi, salviettine umidificatee materiale sanitario. (NdR)
Traduzione di Laura Matilde Mannino, prefazione e supervisione a cura di Angelo Consoli
[1] Il libro, uscito per Chelsea Green nel 2013, è stato pubblicato in italiano con il titolo Rifiuti Zero, una rivoluzione in corso (Dissensi Edizioni, 2012).
Il passaggio da un’economia lineare a una circolare è qualcosa a cui tutti noi possiamo concretamente prendere parte